venerdì 2 gennaio 2009

Fear Of The Dark

Titolo: F.E.A.R.
Sistema: Windows (XBOX 360, Playstation 3)
Produttore: Vivendi Universal
Sviluppatore: Monolith
Genere: First Person Shooter
Anno: 2005












Carino, questo F.E.A.R.. Perlomeno, nelle intenzioni.
Ma di paura, non ne fa per nulla.
Un'accozzaglia di stereotipi cinematografici sul genere thriller-horror non bastano a creare un'atmosfera capace di generare angoscia nel fruitore. Tuttavia, il risultato non è un completo buco nell'acqua. Però, più che di angoscia, parlerei di para-angoscia. Ossia. Il fruitore, più che provare paura vera e propria, come l'esperirebbe in una situazione reale, “recita” la propria paura, si finge impaurito per auto-instillarla artificiosamente in se stesso: più che attante, attore, dunque. E' un'esperienza di secondo livello quella veicolata da F.E.A.R.; essa presuppone un soggetto osservante – non necessariamente umano, forse essenzialmente non-umano, ossia un soggetto inteso quale strategia testuale. In altre parole, il giocatore è soggetto attante e soggetto osservante allo stesso tempo. E la qualità, la forza dell'esperienza offerta dal gioco, risiede nella coalescenza delle due figure testuali. Vien da sé che per assicurare una fruizione pregna, interessante, in un contesto così descritto, si dovrebbero contentare le esigenze di due figure fruizionali, anziché una: è un compito doppiamente arduo. Bisognerebbe, insomma, che il giocatore fosse appagato al contempo sul piano estetico e su quello interattivo. Ma considerare separatamente i due piani, sarebbe un grave errore.


Quando parlo di piano estetico, non intendo la grafica e il sonoro in senso stretto. Bensì una commistione tra l'aspetto visivo-uditivo e l'azione che il giocatore produce nell'ambiente di gioco: in pratica, mi riferisco alla sequenza creata dal fruitore, quello che in gergo si definisce machinima. Credo, peraltro, che per giochi come questo F.E.A.R., si dovrebbe – e forse già si fa, più o meno inconsciamente – valutare non la giocabilità e l'aspetto estetico di per se stessi, ma l'insieme dei due, la machinima, per l'appunto: la capacità, offerta al fruitore dal testo, di generare “sequenze” interessanti. Del resto, credere che l'appagamento derivi dal game design inteso come interazione fra “topografia” dello stage e struttura di controllo, mi pare a dir poco semplicistico, specie in un genere come quello degli FPS, dove di norma la possibilità di salvare e caricare la partita in ogni momento affossa qualsiasi intuizione di game design. E' la machinima la vera forza di questo gioco – e di tutti i giochi simili. Ciò non è del tutto valido per il citato Half-Life 2: in esso, il game design – e perciò, il gameplay - si vale di una componente “puzzle” che arricchisce l'esperienza sul piano interattivo – il problem solving, che in F.E.A.R. risulta pressoché assente oppure è impiegato in maniera tanto pedestre da renderlo irrilevante. E' uno dei motivi per cui continuo a considerare Half-Life 2 un capolavoro del linguaggio videoludico: potenza e innovazione di quel titolo rimangono tuttora ineguagliate.


La storia, la storia, la storia... Tutta questa ossessione per la storia. In un genere in cui la storia è davvero faticosa da seguire (il FPS). Si vuole sparare e basta in un FPS e F.E.A.R. mi pare non faccia nulla per scrollarsi da dosso lo stereotipo; sennonché, si concede altresì il lusso di ammorbare il giocatore con lunghi dialoghi, analessi, e sequenze non interattive in genere. L'intelligenza artificiale dei nemici non mi pare si erga dalla media delle produzioni simili, anzi. Nel complesso, da ogni punto di vista, rimpiango – penso sia chiaro - sua maestà Half-Life 2, che nonostante l'ambientazione non orrorifica, quando si tratta di creare tensione è in grado di intimidire a morte qualunque F.E.A.R. gli si pari dinanzi.